Ci si scandalizza sugli introiti degli influencer, sulle loro avventate manovre finanziarie, sul loro modo di porsi.
Giusto. Giustissimo.
Occorre però, visto che siamo sul tema, allargare l’orizzonte delle nostre analisi e approfittare bel momento “mediatico” per renderci conto della vera dimensione del fenomeno.
Da più di trent’anni il mondo occidentale è sotto il potere degli influencer, senza che i più se ne accorgano: è la pubblicità. Social, televisione, centri commerciali aperti anche di domenica, moda e tendenze obbligano a comprare, consumare, buttare, ricomprare a ritmi impressionanti.
Questo consumismo coatto è indotto da una fabbrica invisibile quanto pericolosa: la fabbrica dell’insoddisfazione. Questa induce costantemente a farti sentire in debito di qualcosa: nel fisico, nel senso di appartenenza, nell’apparire, nell’avere.
Ecco dunque la corsa ad avere sempre di più per essere nella norma, una norma dettata dalle aziende per accumulare profitti. E noi ad obbedire; proni, passivi, pronti a spendere tutti i nostri soldi per tante cose inutili. Pronti a frequentare di domenica i centri commerciali alla ricerca dell’ultimo gadget che ci fa sentire più… integrati e alla moda.
Di tutto questo sistema non vediamo mai la faccia dei registi; non sappiamo i nomi. Non sappiamo nulla.
Poi arriva l’influencer di turno.
Ci mette la faccia.
Sappiamo il nome.
Conosciamo pure la famiglia.
E allora… a morte l’influencer, ricca e sfacciata.
Giusto. Giustissimo.
Magari mentre compriamo gli ultimi improbabili paia di pantaloni.
A Proposito di Influencer
Ulisse Mariani